Il cacciatore di aquiloni

Cinema

Il cacciatore di AquiloniSeccato per problemi di lavoro, lancio un’occhiataccia a un consulente. Una giovane collega si toglie gli occhiali e gli sorride con una certa civetteria. Esco dall’ufficio. Prendo la metro. Sulla strada del ritorno incrocio lo sguardo con strani tipi. Forse testimoni di Geova. Vedendoli, non posso fare a meno di pensare a una creatura di Dosytoevskij, uno di quegli emarginati che passano la vita a rimuginare, a partecipare a riunioni settarie e ad accarezzare giornali pieni di immagini subliminali. Hanno il viso fanatico di uomini posseduti da un demone. Arrivo a Ostia. Prendo l’autobus. Scendo di fronte a un vivaio. Do un’occhiata al vialetto di fronte all’entrata. Il giardino è decisamente ordinato, con i cespugli di forma e altezza identiche e i primissimi boccioli esposti nella loro armonia simmetrica e cromatica. Il muschio cresce rigoglioso attorno ai lastroni di pietra che terminano davanti a una porta a legno ad arco che da accesso sul retro. Punto verso casa. Arrivo. Mi stendo sul letto. E penso. Il Cacciatore di aquiloni. Ieri sera a Cineland. Con amici. Un film di Marc Forster. Un film forte. Commuove ed emoziona. Dopo aver trascorso alcuni anni in California, Amir ritorna nel suo paese d’origine l’Afghanistan. Cerca il figlio del suo vecchio amico Hassan. Questo viaggio è l’occasione per Amir per riandare ai tempi della sua infanzia e della profonda amicizia con Hassan sullo sfondo delle vicende storiche del suo paese in guerra. Difatti, tra Amir ed Hassan si era scavato un solco che solo un coraggio tardivo, ma riparatore, riuscirà a colmare. Non bisognerebbe mai aver letto prima il libro da cui un film è tratto. Perché, pur non volendolo, si finisce con il fare confronti che andrebbero evitati dato che si tratta di due forme di comunicazione diverse. Come molti italiani però ho letto il libro di Khaled Hosseini. Nel libro si racconta uno splendido rapporto di amicizia tra Amir, ragazzo afgano pashtun di Kabul, e Hassan, figlio del suo servo hazara. Certo, il regista, pur avendo realizzato un film più che dignitoso, non riesce a restituire l’emozione complessa che il libro suscita nel lettore. Il film, comunque, segue il libro senza rischiare personali interpretazioni che ne avrebbero snaturato il significato. Khaled Hosseini scrive in modo di incollare il lettore alle sue pagine vivendo in prima persona i travagli interiori di Amir, sentendo fischiare i proiettili russi prima e talebani poi sopra alla propria testa, ritrovandosi il viso rigato di lacrime al primo sorriso che Sohrab, il figlio di Hassan, gli rivolge. C’è anche altro. In Afghanistan se una donna chiede il divorzio perde tutto, figli compresi. Una moglie che commetta adulterio, anche se il marito l’ha lasciata mettendosi con un’altra donna, viene giustiziata e a volte sono gli stessi familiari a provvedere all’esecuzione. Gli uomini controllano le donne in tutto, si accertano che vadano a scuola, che lavorino fuori casa e decidano se possono o meno sposarsi con un certo uomo. Non sono, queste, condizioni fissate dai talebani o dall’Islam, ma ciò nonostante nessuno oserebbe violarle trattandosi di norme con profonde radici nelle antiche usanze tribali dell’Afghanistan. Ho visto il film, trattenendo il fiato. Nel cacciatore di aquiloni c’è una scoperta sconvolgente, in un mondo violento dove le donne sono invisibili, la bellezza è fuorilegge e gli aquiloni non volano più. Sì, avrei una gran voglia di rivederlo.

Il film.

E di rileggerlo.

Il libro.

E’ vero.

Mario Pulimanti (Lido di Ostia -Roma)

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