Arisa, Sanremo, Elton John: i miti dei nostri tempi

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san remo 2010

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Sabato. Dalla finestra il cielo di questo febbraio lidense è di un blu intenso, come il vestito di una liceale al ballo di fine anno. L’aria è straordinariamente tersa. Esco. Colazione al bar Magnanti, da Giovacchino. Cappuccino di Carmelo. Perfetto. Appena l’assaggio una magnifica sensazione cremosa mi avvolge il palato. Sfoglio un giornale. Leggo le rubriche di Maurizio Costanzo, di Roberto Gervaso e di Federico Moccia. Cosa leggo? Incredibile: Gesù? Era “un uomo gay super intelligente”. Questo almeno è la visione di Elton John, che, chiamato a rispondere sulla sua religiosità dalla rivista americana Parade, ha anche aggiunto che Cristo era “una figura piena di compassione che capiva i problemi degli uomini”. Mah…esco dal bar. Passeggio.

Lungomare di Ostia ponente. Nella zona di Via Domenico Baffigo. Incredibile: con la pista ciclabile hanno trovato il modo di eliminare quasi del tutto il marciapiede! Una bicicletta mi affianca. Ferruccio. Lui dice sempre di non aver più una stazione da raggiungere. Vive alla giornata e pensa che vada bene così. C’è comunque dell’idealismo in lui. Con tutto quello che sa adesso, non potrebbe più sentirsi come allora, ai tempi giovanili dei grandi idealismi. E’ troppo esperto e pratico per tornare a guardare la vita attraverso un paio di occhiali rosa, o per pensare che uno possa risolvere i problemi del mondo a tavolino. Ma perdere il suo idealismo, smettere di credere nella capacità degli esseri umani di andare oltre i loro istinti primitivi, significa diventare vecchi, amareggiati e inutili per gli altri, perfino per se stessi. Ferruccio mi saluta e se ne va. L’idealismo è un po’ come Venere nel cielo del giorno. Una volta sei in grado di vederla. Ma con il passare del tempo ti serve meno e vuoi scrollarti di dosso la responsabilità, e hai la capacità di vederla, di crederci. Ma adesso pensi che saresti riuscito a vederla di nuovo se avessi fatto uno sforzo e avessi guardato con attenzione. Arrivo al porto, mi siedo sul parapetto, mi stringo il giaccone e guardo su nel cielo, cercando di trovare Venere prima che il giorno finisca e cali il buio. Poi riprendo a camminare. E intanto, rifletto. Penso ad un mio amico del quale sono stato il testimone di nozze. E’ una cosa che fra uomini come me dovrebbe rappresentare un legame per tutta la vita. Eppure ultimamente ci siamo visti poco. Ho deciso, appena torno a casa gli telefono. Parola di giovane marmotta. Ho un leggero soprassalto, che per un istante mi fa dimenticare dove sto andando: non mi sono accorto di essere molto vicino al mare. Dunque in un attimo arrivo al Pontile. Intorno a me, il mare. Incontro un’amica. E’ la classica bellezza romana. Talvolta, soprattutto quando raccoglie i capelli lunghi fino alle spalle, la gente pensa che sia una ballerina in pensione, passata con qualche rimpianto a una vita taglia quarantaquattro. Lei in realtà non ha mai ballato in vita sua, se non a scuola o in qualche locale. La sua unica concessione alla vanità femminile è la cura delle sopracciglia: le sfoltisce e le decolora regolarmente. Altri espedienti sono in fase di studio, ma per il momento nessuno è stato messo in pratica. Le squilla il cellulare. Risponde, poi mi saluta. Mi passo la mano sui miei capelli bianchi. Ho delle priorità e, per quanto mi riguarda, la vanità non ne ha mai fatto parte. Nel frattempo il cielo è diventato nero come l’inchiostro, punteggiato di stelle e con qualche spruzzata di nuvole. Il cielo è macchiato dalle scie degli aerei che atterrano e decollano dal vicino Aeroporto di Fiumicino. Punto verso casa. Mi incammino sul lungomare, aggiro Piazza Rendina, passo per via Grenet e supero infine l’incrocio di Corso duca di Genova. E qui che abito. Al 253. Una volta arrivato davanti al portone, mi guardo attorno. Ora Ostia si sta riqualificando come sobborgo marino di Roma, con negozietti e ristoranti caratteristici, case ristrutturate in versione signorile e vari club nuovi e scintillanti. Entro a casa. E’ vuota. “Ciao” dice Simonetta senza voltarsi mentre butta gli spaghetti, dritti come bastoncini da shanghai nell’acqua bollente. Bevo un bicchiere di vino bianco. Freddo. Gabriele fa ritorno a casa. Si siede alla scrivania e fissa la finestra. Gabriele non ha paura di dire ciò che pensa. Lui esprime sempre le sue idee. Però non è uno sconsiderato. Sostiene che a meno che un individuo non sia particolarmente versato nell’arte della retorica, le parole che pronuncia in un luogo pubblico ben presto volano fuori dal suo controllo, come foglie al vento. Una verità innocente può essere stravolta in una menzogna fatale. Ecco perché non parla di politica fuori di casa. O con estranei poco affidabili. Che strano: stasera mi sento di schifo. Un perfetto idiota. Ormai sono maturo per qualche ospedale psichiatrico per lungodegenti.

Gabriele mi consiglia di riposarmi, finendo di parlare con un sorrisetto. Liturgia. Alzo le spalle. Tanto sono sicuro che non servirebbe a nulla.

Grazie al cielo a Sanremo. Così mi limito a sedermi davanti alla TV e, detto per inciso, a godermi lo spettacolo. Prima dello spettacolo, un giornalista ci informa che il Festival di Sanremo ha sessant’anni. Dal 1951 l’Italia è cambiata, il Festival di Sanremo no. Da sessant’anni il Festival di Sanremo accompagna la nostra vita. Le canzoni hanno riflesso la cronaca e la storia, i problemi, le ambizioni e la politica. Da quella prima volta nel 1951, quando Nilla Pizzi vinse cantando “Grazie dei fiori” davanti a un pubblico di clienti del casinò. Nilla fu subito la regina alla quale occorreva contrapporre un reuccio, ed ecco Claudio Villa. Era tempo di case popolari, e nelle città le chiamarono “casette in Canada” come nella canzone. Nel 1958 fu Modugno a spiegare agli italiani che era arrivato il tempo del sogno, che stavamo per avventurarci tutti in un cielo blu di miracolo economico. Da quel momento “Volare” è diventato il nostro secondo inno nazionale. Le donne, però, restavano fedelissime, avvinte come l’edera. Tra innovazione e conservazione: “24 mila baci” da una parte, “Romantica” dall’altra. Sempre così, a volte la donna italiana non ha l’età, a volte muore d’amore. Sul palcoscenico sanremese transita ogni fenomeno: la contestazione arriva tra pietre e fiori nei cannoni, viene seppellita dalla zingara che legge la mano e capisce in anticipo. Inutile gridare “nessuno mi può giudicare”, ritornello che non è mai passato di moda, basta leggere i giornali. La stagione degli scioperi a Sanremo si risolse in un consiglio: “Chi non lavora non fa l’amore”. Negli anni di piombo Sanremo è sopravvissuto senza acuti, con vincitori dei quali non si ricorda nessuno. C’è voluto “un italiano vero” con un presidente partigiano per restituire dignità all’Italia in un momento difficile per resuscitare alla grande Sanremo. Sanremo: tanti ne parlano male, ma poi quasi tutti lo guardano. Ehilà, basta con la storia di Sanremo. Ma quando arrivano le canzoni. Ah, eccole. E questa chi è? Oh, adesso la riconosco. Arisa, quella di “Sincerità”. Canta “Malamorenò”, un pezzo che parla di un uomo e una donna rimasti soli sulla Terra, e costretti ad andare avanti solo con il loro amore. Bella canzone: sarei contento se vincesse il festival. Cavolo, si è fatto tardi. Sorseggio l’ultimo drink. Poi spengo le luci e vado a letto. A dormire, o a provarci. Nella penombra, mi riecheggiano le note delle canzoni di Arisa: “Può scoppiare in un attimo il sole. Tutto quanto potrebbe finire. Ma l’amore, ma l’amore no.

Anche i prati rinunciano ai fiori. Perché i fiori hanno perso i colori

Ma l’amore, ma l’amore no…” Così mi addormento ricordando le parole di Arisa…e quelle di Elton John! God natt.

Scritto da Mario Pulimanti

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Una risposta a “Arisa, Sanremo, Elton John: i miti dei nostri tempi”

  1. Giancarlo Talocci ha detto:

    Racconto strepitoso

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