Colleghi da uccidere!

Attualità e Società

Ufficio. Mi piace la mia stanza. E’ luminosa e ha una bella vista sul cortile. Silenzio. Passano alcuni minuti. Lavoro. Mi interrompo. Entra un collega. Immagino che lui appartenga alla categoria di persone insicure che iniziano una frase con una risatina e scusandosi per qualcosa.

Lui parla e io guardo fuori della finestra. La sensazione che non mi abbia parlato ma sputato addosso. E’ talmente scontato. Esco. Dall’altra parte del corridoio, una collega si muove lamentandosi. Per un attimo sostiene il mio sguardo, poi si volta, il viso di pietra. I suoi occhi sono senza luce, vuoti, come sempre. Eppure usufruisce di una indennità integrale che a me spetta solo parzialmente. Cerco di sorridere. Poi un velo di sudore mi copre la fronte e il labbro superiore. Ciò che vedo all’interno della sua testa, al momento, sono solo parole velenose. Occhi lampeggianti d’odio indefinito. Mi fermo. Faccio una pausa, sentendomi un perfetto idiota. Colto improvvisamente dalla nausea, chiudo gli occhi. Nulla può placare l’ondata di rabbia e risentimento che mi sta montando dentro. Ho scoperto che al lavoro sono stato ingannato tante volte. Anche da quelli che credevo amici. O amiche. Scuoto lentamente la testa. Penso: non sono ancora troppo vecchio per incominciare a non farmi sorpassare sul lavoro da colleghi prepotenti e raccomandati. Nella mia famiglia siamo gente malinconica. Troppo spesso ci crogioliamo nell’autocommiserazione. Accettiamo la sconfitta e la sofferenza, come fatti ineluttabili, anzi come necessità. Diciamo, la vita continua. Nel mio caso non si tratta di una resa al fato. Sono pragmatico. Mi sembra di sentire mio padre: “Esiste solo ciò che fai e ciò che non fai”. Mi manca moltissimo. Incontro un collega. Anzi un amico. L’unico che ho in questo ufficio. Apro la bocca per salutarlo, ma ne esce un suono inarticolato. Mi passo la lingua tra le labbra e riprovo. Scuoto di nuovo la testa. “Che cosa vuoi dire, Mario?” La sua voce è forte, quasi un tuono. Sospiro e mia abbandono sulla sedia. C’è una striscia di sole nella sua stanza. “Non farci caso” dico, con l’avvilimento che non accenna a diminuire. Stanco di tutto, più niente da offrire. “Che cosa posso fare, Mario. Dimmelo”. Non so fare altro che fissarmi le mani. “Beh, quello che mi spetta. Il giusto riconoscimento. Reggenze. Incarichi. Sì, tornare a lavorare sorridendo. Tutto qui”. Non sa che cosa rispondere né dove guardare. Si gira su un fianco volgendomi la schiena. Rimane in silenzio a lungo. Poi, quando ormai pensavo che si fosse addormentato, dice con voce soffocata. “Sponsor. Santi in paradiso. Servono solo quelli”. Ritorno in stanza. Riprendo a lavorare. Sono stanco. Tanto stanco. Tra me e l’ufficio qualcosa si è spezzato. Quando tempo dovrà passare prima che ritorni a sorridere? Prima che mi fidi nuovamente dei miei colleghi, ammesso che ci riuscirò? Lascio il lavoro e torno a casa. Camminando, abbasso la testa. Inquieto. Durante il viaggio di ritorno penso. Penso al Mercato di Piazza quarto dei mille, vicino a casa mia. Quel labirinto di stradine e vicoli fiancheggiati da file ininterrotte di bancarelle, è intasato di ciclisti, pedoni e dalla troupe di Stefano Locci di Canale 10. Quasi fosse un Bazar di Ankara, vicino agli italiani, molti venditori extracomunitari, avvolti in leggeri drappi di lana vendono paralumi di pergamena, scialli ricamati e recipienti d’ottone. Il mercato e le zone limitrofe sono un guazzabuglio di rumori: alle grida dei venditori si mescola musica napoletana trasmessa a tutto volume, gli scampanellii delle biciclette e lo scalpiccio delle suole dei numerosi passanti. Nel mio naso entrano odori forti, alcuni piacevoli, altri meno, l’aroma speziato delle anguille marinate, che mia moglie e mio figlio Gabriele adorano, misto alle esalazioni pungenti dei motori diesel, alla puzza di spazzatura in putrefazione e di sudore. Pensando, pensando, sono arrivato a casa. Entro. Abbracciando mia moglie, sento il profumo di mela dei suoi capelli. Le bacio l’orecchio. Solo più tardi mi accorgo di sentirmi meglio. Il dolore ha fatto i bagagli e si è allontanato senza neppure avvisare. In silenzio.
Mario Pulimanti (Lido di Ostia -Roma)

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