ELETTRA LAMBORGHINI E SLUT SHAMING: QUEL DIRITTO NEGATO DI ESSERE LIBERE

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Quante volte abbiamo sentito uomini o donne scagliarsi contro altre donne in maniera infima e gretta, ricorrendo all’utilizzo di espressioni sessiste come «che tr*ia!» oppure «sei una z*ccola» o ancora «figlio di putt*na!»?

 

Si tratta per lo più di locuzioni e appellativi denigranti che a dispetto della loro trivialità, sono ormai entrati a far parte della nostra routine quotidiana: inveterato nelle nostre fibre come colla, il loro regolare utilizzo ci trascina irrimediabilmente in un automatismo di violenza quasi latente, scatenando tutta quella serie di atti e reazioni che gli studi di genere identificano con lo «Slut shaming», ossia la tendenza lesiva ad insinuare nella donna un sentimento di inferiorità o colpevolezza per aver manifestato qualunque comportamento o desiderio sessuale non conforme a quelle che sono le aspettative di genere tradizionali. Si tratta per lo più di un processo inquisitorio all’interno del quale le donne vengono direttamente o indirettamente attaccate per la loro trasgressione del cosiddetto «sexual code» (o delle convenzioni sociali, culturali e religiose) e di conseguenza ammonite per il fatto di vivere liberamente la propria sessualità. A questo, ne consegue la convinzione di poter giustificare tutte le umiliazioni e le violenze che costoro subiscono poiché «troppo promiscue»

 

A dispetto delle credenze comuni, affibbiare ad una donna un epiteto di tale portata può innescare in colei che lo subisce delle ripercussioni psicologiche a lungo termine. Questo proprio perché l’utilizzo ossessivo di tali mortificazioni è un messaggio forte e chiaro nel cuore della vittima: in altre parole le stai dicendo «puoi vivere in maniera libera la tua sessualità, fino a che non travalicherai dei confini ben precisi. In caso contrario ti renderai automaticamente responsabile di ogni violenza».

 

È evidente come tali atteggiamenti possano ormai essere diventati alla portata di tutti e di conseguenza anche «normalizzati»: sebbene talvolta ci facciano sussultare ed indignare profondamente, resta pur sempre invalidante l’immediatezza con la quale queste abitudini possano farci precipitare nella trappola del sessismo. Una delle peculiarità dello slut shaming è il fatto che le espressioni con le quali viene tipicamente messo in atto non abbiano mai una declinazione al maschile.

È questa assenza di trasversalità a rendere l’insulto sessista, molto più grave e feroce di qualsiasi altro improperio.

 

Vi faccio qualche esempio.

 

Quando esplichiamo l’epiteto “str*nza!” nel contesto di un litigio, sarebbe lapalissiano conferire a tale illazione una connotazione sessista. Di fatto, nel gergo linguistico esiste un corrispettivo maschile che è “str*nzo”. Tale trasversalità esime l’eufemismo da qualunque accezione sessista. Accezione che invece perviene quando utilizziamo espressioni come “figlio di putt*na”, “figlio di tr*ia”, che inevitabilmente finiscono per colpire la donna, più che il destinatario.

 

La responsabilizzazione indebita delle donne, espletata attraverso l’utilizzo reiterato di tali termini, non fa che sottrarre loro soggettività, libertà, autodeterminazione, annichilendo e riducendo il loro ruolo ad una mera funzione sessuale. Quell’insulto non costituisce in sé solo un automatismo di violenza, ma implica una sottintesa minaccia dell’esposizione a potenziali violenze. Sta di fatto che spesso, tali insulti vengono rivolti proprio alle donne che subiscono qualsivoglia tipo di violenza, sia nel corso di uno stupro che in seguito, quando il Victim Blaming imperversa tra i commenti sui social e circa 2 persone su 3 prendono le parti degli stupratori, esordendo con slogan non molto dissimili da “Se l’è andata a cercare” o “chissà com’era vestita”.

 

La morale? Sempre la stessa: “sei una putt*na”.

Lo sei perchè sei donna. Lo sei perché hai una vagina. Lo sei perché scegliendo di vivere la tua sessualità liberamente, sei di tutti e di nessuno. Lo sei perché non hai un partner fisso. Lo sei perché non vuoi ottemperare all’egemonia di un retaggio al quale io, ancella, sono stata costretta a soccombere da tutta la vita. Lo sei perchè tu hai avuto il coraggio di recidere ogni catena, mentre io sono qui a guardarti inerme e nel mentre mi domando perchè al contrario di te, abbia così tanta paura. Lo sei perchè non posso non avere il controllo sul tuo corpo. Lo sei perchè il fatto che tu possa decidere quando, dove e con chi fare sesso è limitante per la mia libertà: perchè tu, donna, puoi avvalerti del diritto di scegliere con chi andare al letto, mentre io non posso avvalermi del diritto di sceglierti senza rischiare di finire in carcere per tentato stupro.

 

Per tali ragioni sei una tr*ia. Per tali ragioni meriti il peggio.

 

Questi sono i pensieri che soventemente invogliano – ma naturalmente non giustificano – buona parte degli uomini e delle donne a ricorrere all’utilizzo di insulti sessisti; tanto più gravi perché dietro la loro immancabile violenza non vi è alcuna possibilità di reazione e/o demolizione. Reiterando questo comportamento, l’aggressore raggiunge il suo scopo. Questo perché le parole hanno un potere, che se utilizzato in maniera disfunzionale rischia di diventare materiale corrosivo per l’animo di una persona particolarmente vulnerabile.

 

Pensaci, prima di dare della tr*ia ad una donna.

 

Ad Elettra Miura Lamborghini va la mia solidarietà e il mio invito a non perdonare: un Incel sa sempre quello che fa (e quello che non potrà mai avere).

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