Doveva essere uno dei punti di forza della riforma del settore, una riduzione sostanziosa che avrebbe semplificato le procedure; ma, come successo nel caso dei criteri di aggiudicazione delle gare, anche sul taglio delle stazioni appaltanti c’è una forte discrepanza tra previsioni e realtà. Ecco il punto sulla situazione.
Sembra passata una vita, eppure parliamo appena di diciotto mesi fa: eravamo nel corso della fase di discussione e approvazione di quello che sarebbe diventato il Decreto Legislativo 50/2016 (approvato nell’aprile 2016), e le voci della politica si soffermavano a elencare i pregi di quella che sarebbe stata la riforma del Codice degli Appalti in Italia.
Tra i vari punti di forza elencati, ricordiamo in particolare l’accelerazione sulla realizzazione delle opere, il contrasto alla corruzione, la rivoluzione nell’affidamento delle gare grazie al passaggio dal criterio del massimo ribasso a quello dell’offerta più vantaggiosa, nonché la riduzione delle stazioni appaltanti, uno dei vulnus aperti del nostro sistema. A distanza di un anno dal via libera alla legge, però, le cose stanno in condizioni molto diverse.
Innanzitutto, come noto e come riportato negli approfondimenti del giornale degli appalti in Italia appaltitalia.it, il criterio del massimo ribasso non è ancora del tutto sparito, perché resta utilizzabile in gare con importi inferiori al milione di euro (ovvero, la maggioranza di quelle emesse dalle amministrazioni pubbliche nazionali). E poi, anche la stessa questione delle stazioni appaltanti è ancora in alto mare.
È da tempo che si discuteva della necessità di ridurre il numero di queste strutture, che all’inizio del 2014 viaggiano verso le 35 mila unità diffuse sul territorio dello Stivale, tutte caratterizzate da un’organizzazione interna diversa in relazione ai diversi enti di appartenenza, ovvero Amministrazioni dello Stato, Regioni, Enti Locali. Un primo passo è stato compiuto a partire dal novembre 2015, con l’assorbimento degli appalti di questi enti da parte dei 34 soggetti aggregatori registrati presso l’ANAC, ma il processo non è mai decollato del tutto.
Al punto che, in fase di approvazione del nuovo Codice degli Appalti, la grande promessa rilanciata era di portare il numero di Stazioni Appaltanti da “36 mila ad appena 2000” o addirittura a poche centinaia: al giro di boa del primo “compleanno” della riforma, però, questi obiettivi appaiono ancora lontani, visto che non solo il taglio non è stato ancora effettuato, ma sembra proprio che sarà anche meno drastico del previsto.
Come rivelato nel corso di un seminario organizzato dalla Banca d’Italia in questi giorni, infatti, secondo la stima dell’ufficio legislativo del ministero delle Infrastrutture il numero degli enti pubblici abilitati a mettere in gara contratti per lavori, servizi e forniture dovrebbe sì scendere, ma “solo” fino a seimila stazioni appaltanti. È questo infatti il numero di strutture che risultano in grado di qualificarsi al momento, incrociando i parametri del decreto con i dati sulle amministrazioni in possesso dell’Anac.
Ulteriore fattore che dovrebbe “allargare le maglie” potrebbe essere l’estensione, prevista nel decreto correttivo di riforma del codice, del periodo che la stessa Agenzia Anticorruzione deve prendere in considerazione al momento di contare il numero delle gare dichiarate nel curriculum dalle Pa che chiederanno l’iscrizione all’albo, che appunto dovrebbe passare da tre a cinque anni.
Insomma, a un anno di distanza dalla partenza del nuovo Codice degli Appalti le zone grigie sono ancora molte, sia sul fronte burocratico che sugli aspetti pratici; una conseguenza forse inevitabile vista la mole della riforma e l’importanza del settore, che da solo movimenta (e vale) circa il 15% del PIL del nostro Paese.
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