Salve: mi chiamo Mario Pulimanti

Attualità e Società

Al Pontile, davanti a una gigantesca M gialla, emblema di tutto quello che odio dell’America. Incontro un amico. Ci sediamo al bar per un gin tonic. Anzi, due. Poi un cuba libre. Ahh, ora sto meglio! Lui è un mio coetaneo, ma dimostra la metà dei miei anni. Viso malrasato e brufoloso da ragazzino, titolare di una particolare vocetta uggiolante, è comunque un bravo ragazzo. Dice che una risposta alla crisi del teatro italiano sono gli spettacoli a basso costo.

“Gli sconti non servono a niente: la gente deve pagarselo caro il biglietto d’ingresso” dice infine. Scoppio a ridere. “Un tantinello elementare, non credi?” “All’arrembaggio” dice ridendo con il viso paonazzo boccheggiando per prendere fiato. E’ quest’ultimo dettaglio a farmi decidere a cambiare discorso. Dico: “Non lamentarmi nel vedermi sorpassare sul lavoro dai soliti raccomandati non è forza di carattere. E’ pura e semplice debolezza”. “Non ti credo. Tu non sei debole”, dice. “Lo sono, invece. Debole e irresoluto. E ho pure i trigliceridi alti!” aggiungo, puntando un dito tremante su ipotetici colleghi. “Ah, sì? E che fai allora? Te ne resti con le mani in mano?” mi fa. “Perché ti sorprenderebbe?”. Passiamo a un White Russian. “Ma che cosa t’impedisce di trovare sponsor anche tu? Ce ne sono tanti in giro. Sarebbe stupendo se ci fossero reggenze anche per te”. “Non mi va” sbuffo scuotendo la testa. “Ma rimarrai solo tu senza incarichi. Sarà terribile”. “Può darsi”. Non serve aggiungere altro. Lo raggiunge la moglie. Da quel po’ che la conosco mi è sempre parsa una donna molto pugnace. A questo punto capisce che il tempo della nostra conversazione è scaduto. “Ciao, allora” mi dice soltanto. Da questo breve colloquio a propulsione alcolica traggo la convinzione che io stia diventando una sorta di affascinante visionario. Non esistono, infatti, incarichi senza raccomandati! Rimasto solo, penso a mio padre. Chissà cosa avrebbe detto lui? Credo vi siate ormai resi conto che provengo da una famiglia molto unita, e che ai miei occhi tradizionali valori familiari della lealtà e del sostegno reciproco sono stati sempre della massima importanza. L’uomo che mi ha inculcato questi valori, e che ricordo sempre con immenso affetto, è stato appunto papà: un uomo di un calore e di una vitalità da sbalordire, un uomo che ha trascorso la sua vita in una nuvola dorata di allegria. E che infatti è morto così come aveva vissuto, ridendo della morte. Penso alla Pasquetta del novantadue, giorno dell’addio. Le lacrime mi pungono gli occhi. Perché ve lo racconto? Sono uno scrittore? No, anche se scrivo. Cavolo avete da guardarmi a quel modo? Scrivere mi distende. I nervi. Certo, certo. Ma le ingiustizie rimangono. A volte mi piace credere che prima o poi otterrò qualcosa anch’io. Chimere. Arrivo a casa. Spingo la porta. Apro. Non c’è nessuno. Apro il frigorifero. Prendo una bottiglia di vermentino. Riviera ligure di ponente. D.O.C. 2001. Penso a mia nonna Jole. “Mica stiamo a pettinare le bambole” avrebbe detto. Esco sul balcone. Dopo una giornata afosa, cercando ristoro alla canicola, cosa c’è di meglio di un calice di vino bianco freddo. Disseta, allontana i cattivi pensieri. Un piacere da degustare lentamente. Seduto comodamente al fresco del balcone bevo e penso. Penso a quando andrò in pensione. Cosa lascerò ai miei figli? Si dice che un individuo si comporta in maniera miope quando le sue scelte di risparmio e assicurative non sono proiettate al futuro, cioè quando manca quella pianificazione che permette di soddisfare il fabbisogno di risorse nel periodo dell’invecchiamento. Se i motivi di questo comportamento sono molteplici e ancora oggetto di studio, le conseguenze sono ovvie: una pianificazione basata su un orizzonte temporale limitato porta a carenze di risorse e spesso a condizioni di povertà nella vecchiaia. Se gli individui possono soffrire di miopia, i governi e certamente le istituzioni preposte a fornire garanzie per il futuro dovrebbero, per definizione, essere lungimiranti. Devono garantire la sostenibilità dei sistemi di welfare e in particolare del sistema pensionistico, cioè un equilibrio delle risorse finanziarie nel tempo e non soltanto in un singolo periodo, devono inoltre garantire l’equità tra generazioni, cioè trattare i figli come i padri e come i nonni. Il tema pensioni è invece diventato negli ultimi anni una patata bollente da passare ai governi successivi per quel che riguarda la decisione politica, che si concretizza di solito in soluzioni ad hoc, e da passare alle generazioni successive per quel che riguarda il finanziamento. Così i giovani, già alla nascita, si portano addosso un debito nei confronti di genitori e nonni pur avendo difficoltà di ingresso nel mondo del lavoro e pur avendo carriere più discontinue delle precedenti generazioni. C’è un’aggravante: la demografia nei prossimi 20-30 anni ci costringerà a fare i conti con entrate contributive magre a fronte di spese pensionistiche crescenti: la patata diventerà sempre più bollente! Se è quindi legittimo considerare le pensioni un diritto di tutti e dovere dei governi provvedere affinché ci siano redditi dignitosi nelle età anziane, bisogna chiedersi da dove vengano le risorse e se stiamo garantendo una vecchiaia serena anche ai nostri figli. E intanto bevo. Tra un pensiero e l’altro non mi accorgo di aver finito la bottiglia. Ricaccio in fondo alla mente la consapevolezza di essere ormai ubriaco, anzi molto ubriaco, ubriaco forse come mai in vita mia. Riesco a ciondolare fino al tavolo della cucina e ad affondare grato sulla sedia. Mi volto. Intorno a me, nessuno. Un singhiozzo mi scuote il corpo: sono talmente ubriaco, talmente stanco. Mi alzo dalla sedia e scivolo rapidamente lungo il corridoio, via, fino alla mia stanza. La sensazione successiva che riesco a mettere a fuoco è che sono seduto sul letto della mia stanza. Mi guardo una mano. La sinistra. La luce è accesa e non ho più la maglietta. E’ appallottata sul pavimento, nei pressi dell’armadio. Mi alzo in piedi e vacillo all’istante, in parte per l’ubriachezza in parte per la rabbia. Quello che succede ultimamente in ufficio sembra sfidare la mia comprensione: una metà di me vuole cancellare all’istante dalla memoria questi ricordi, l’altra metà si affanna a riesumarli per sviscerarne ogni singolo particolare. E’ vero, e’ proprio vero che certi colleghi hanno ottenuto privilegi incredibili? Ed è proprio vero che a me non sono stati offerti? Nel frattempo ho smaltito la sbornia, e con una rapidità che mi pare insolita. Tremante e seminudo, provo una smania improvvisa di mettermi a scrivere al computer, e con questo pensiero in mente attraverso la stanza, raggiungo il pc, lo accendo e inizio a scrivere le cose che state leggendo. Dolore. Confusione. Stanchezza. Li fondo in un’unica e sola passione: rabbia. Che senso ha continuare a lavorare, quella fatica perpetua da mulo dell’ufficio, se non mi viene mai offerta su un piatto d’argento l’opportunità di ottenere le reggenze e gli incarichi, secondo i miei desideri. Altri hanno la fortuna, gli sponsor, la presenza di spirito di coglierli. Io, no. Fisso le parole sul pc finchè non si trasformano in accuse casuali e prive di significato: finchè non perdono ogni senso. Poso il mouse. Smetto di scribacchiare oscenità su alcuni colleghi. Mi alzo, barcollo e vado a sbattere su una parete. Forse non sono sobrio quanto credo. In quel momento entra in casa Simonetta. Mi saluta. Sono in piedi accanto al bagno quando squilla il telefono. Risponde: è la sorella. Poi mi sento cedere le gambe e mi vedo scivolare lungo un fianco dello sgabuzzino. Mia moglie non si accorge di nulla. Beghe telefoniche. Avvisto il letto dall’altra parte e con un estremo e definitivo sforzo riesco a buttarmici su. E poi mi addormento.

Mario Pulimanti (Lido di Ostia -Roma)

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